Tommaso Campanella (battezzato col nome di Giovan Domenico) nasce a Stilo nel 1568 da Geronimo Campanella, che era analfabeta e che di mestiere faceva lo «scarparo», e da Caterina Martello.
Nel 1582 entra nell’ordine domenicano e assume il nome di Tommaso.
Nel 1588 si trasferisce a Cosenza. Qui l’ideale incontro con Telesio: l’evento decisivo della sua giovinezza. Rimane affascinato dal De rerum natura. Verso la fine dell’anno viene mandato ad Altomonte e qui scrive la Philosophia sensibus demonstrata, in difesa di Telesio contro l’aristotelico Giacomo Antonio Marta. Come ricorderà nel De libris propriis et recta ratione studendi syntagma: «Divenuto inquieto perché mi sembrava che nella scuola peripatetica non si ritrovasse la verità, e che la falsità avesse preso il suo posto, presi ad esaminare tutti i commentatori di Aristotele, greci, latini e arabi, e i miei dubbi nei confronti delle loro dottrine andarono aumentando. Volli perciò verificare se le loro affermazioni si leggono anche nel mondo, che dalle dottrine dei sapienti appresi essere il libro vivente di Dio. E poiché i miei maestri non erano in grado di rispondere alle obiezioni che sollevavo contro quanto insegnavano, decisi di leggere io stesso tutti i libri di Platone, Plinio, Galeno, degli Stoici e dei seguaci di Democrito, ma soprattutto quelli di Telesio, e di confrontarli con il libro del mondo, per appurare, dal raffronto con l’originale e l’autografo, ciò che di vero e di falso si ritrova nelle copie. Nel corso di pubbliche dispute a Cosenza, o in colloqui privati con i confratelli, le risposte dei miei interlocutori non riuscivano a placare i miei dubbi: solo Telesio riempì il mio animo di gioia, sia per la libertà del filosofare, sia perché derivava le sue dottrine dal mondo naturale (ex rerum natura), e non dalle parole degli uomini (non ex dictis hominum)».
L’adesione alla filosofia di Telesio gli costa subito cara. Alla fine del 1589 va a Napoli e nel 1592 viene incarcerato nel convento di San Domenico: gli viene ordinato di tornare in Calabria, ma anziché rientrare nella sua terra parte per Roma.
Nel 1593 si trasferisce a Padova. Qui incontra, fra gli altri, Galileo, e dopo pochi mesi viene arrestato per ordine dell’Inquisizione. Nell’ottobre del 1594 entra nelle carceri dell’Inquisizione romana e nel maggio del 1595 è costretto ad abiurare «per gravissimo sospetto d’eresia».
In questi anni viene arrestato più volte. Il 1600 è, anche per Campanella, una data molto significativa. Per evitare la pena capitale, che era vietato infliggere ai folli, il 2 aprile, mattina di Pasqua, dà inizio alla simulazione della pazzia, la cui certificazione avverrà soltanto l’anno successivo dopo il terribile tormento della «veglia». A un aguzzino dirà: «Che si pensavano che io era coglione che voleva parlare?»…
Nel 1602 compone la Città del Sole e dopo due anni viene trasferito in Castel Sant’Elmo, in una cella sotterranea, o «fossa» come la chiama, dove trascorre un periodo atroce.
Nel 1616 scrive l’Apologia pro Galileo e nel 1618 viene trasferito in Castel Nuovo dove vive in condizioni meno drammatiche.
La prigionia finisce solo nel maggio del 1626 dopo quasi ventisette anni. Ma il proscioglimento da tutte le accuse avviene solo nel 1629. Nel 1634 si trasferisce in Francia. Negli anni 1636-1638 escono i primi volumi degli Opera omnia. Muore a Parigi il 21 maggio del 1639 e viene seppellito come semplice frate nella fossa comune.
Durante i lunghissimi e terribili anni di prigionia, Campanella scrive una mole impressionante di opere: trattati sui più svariati argomenti, ma anche tante, bellissime poesie, come quella che si intitola Del mondo e sue parti e che risale ai primissimi anni del Seicento: «Il mondo è un animal grande e perfetto, / statua di Dio, che Dio lauda e simiglia: / noi siam vermi imperfetti e vil famiglia, / ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto. / Se ignoriamo il suo amor e ’l suo intelletto, / né il verme del mio ventre s’assottiglia / a saper me, ma a farmi mal s’appiglia: / dunque bisogna andar con gran rispetto. / Siam poi alla terra, ch’è un grande animale / dentro al massimo, noi come pidocchi / al corpo nostro, e però ci fan male. / Superba gente, meco alzate gli occhi / e misurate quanto ogn’ente vale: / quinci imparate che parte a voi tocchi». Commenta Campanella: «In questo sonetto dichiara che l’uomo sia, come il verme nel nostro ventre, dentro il ventre del mondo; ed alla terra, come i pidocchi alla nostra testa; e però non conosciamo che ’l mondo ha anima ed amore, come i vermi e gli pidocchi non conoscono per la piccolezza loro il nostro animo e senso; e però ci fan male senza rispetto. Però ammonisce gli uomini ch’e’ vivano con rispetto dentro il mondo, e riconoscano il Senno universale e la propria bassezza, e non si tengano tanto superbi, sapendo quanto piccole bestiuole e’ sono».